La fotografa che non ama farsi fotografare

Io ho sempre fotografato gli altri; ho usato la macchina fotografica oltre che come strumento professionale, anche come espediente per stabilire un filo diretto con le persone, per avere l’opportunità di avvicinarmi a loro e vincere le normali resistenze dovute alla scarsa confidenza e, perché no, per vincere la mia timidezza. Per questo, mi sento quasi nuda quando ne sono priva e non sono nel perimetro di quella che molti chiamano la “comfort zone”. Però, c’è sempre una cosa che mi mette in crisi più delle altre: essere io stessa a dover essere fotografata.

Ultimamente, ho avuto la necessità di dover aggiornare le foto dei miei profili social: quelle che posseggo sono ormai un po’ datate e la mia immagine è certamente cambiata da quando le ho scattate: i miei capelli, ormai tenuti più corti, e sicuramente posseggo qualche ruga in più.

Purtroppo, lo stesso prodigio per il quale l’obiettivo della macchina fotografica riesce ad avvicinarmi alle persone quando è rivolto verso di loro, si trasforma in maleficio quando è rivolto verso me stessa, rendendomi impacciata e timida; lo stesso effetto di quando, bambini, rivolgevamo il binocolo al contrario invertendo il normale funzionamento e rendendo lontano ciò che è vicino.
Naturalmente, essendo poco propensa all’autoscatto (come del resto può facilmente appurarsi dalla endemica assenza di selfie tra le mie foto), ho chiesto a mio marito di aiutarmi. E così, tra il mio imbarazzo e la sua completa avversione al senso artistico, e con il catalizzatore della nostra complicità, germogliata da amici prima ancora che da innamorati, il tutto si è sviluppato tra espressioni improbabili e infruttuosi tentativi di mantenere una posa adeguata.

La foto [che vedete su] parla da sola: quella mano è frapposta tra me e l’obiettivo nello sforzo di arginare un nuovo sussulto di risate, ed insieme il tentativo di precludere uno scatto senza che mi fossi appropriatamente impostata in una posa consona e dignitosa.
Ecco, io sono così, come lascia trasparire quella foto: timida e riservata. Mai desiderosa di trovarmi in primo piano e poco incline ad essere osservata dagli altri. Per questo raramente ho festeggiato il compleanno con i miei amici: non amo trovarmi al centro dell’attenzione. Probabilmente, la mia propensione all’invisibilità affonda in radici profonde e chissà quale piega del mio passato, ma in fondo questo non mi sconforta perché alla fine ho maturato due importanti convinzioni: anzitutto, non sono invisibile a chi mi vuole bene; poi, è necessario accettarsi per come si è.

E queste valutazioni le traspongo nella mia vita professionale di ogni giorno: non amo trasformare le foto dei miei clienti nella rappresentazione di persone che non esistono. Le rughe, i piccoli difetti del viso, le espressioni naturali e non forzate, rappresentano la reale essenza dei miei soggetti, il tratto caratteristico che li rende unici e non ripetibili; l’elemento distintivo grazie al quale si riconosceranno dopo anni quando rivedranno le foto che gli ho proposto.
Per questo ricerco la naturalezza e la spontaneità, sia al momento dello scatto sia nella fase successiva, che nel nostro gergo si chiama “post-produzione”. Vorrei che le/i mie clienti manifestassero nei confronti della vita e della immagine di se’ che si evolve negli anni la stessa disposizione con cui guardano l’onestà espressiva delle mie foto, anche se la comunicazione pubblicitaria ci ha abituato a donne sempre belle e sempre in forma, spesso con artifici grafici e fotografici. E se è innato in noi donne concedere qualche spazio alla vanità e puntare ad una immagine più curata, penso sia oltremodo saggio essere più indulgenti verso se stessi e non mirare ad essere per come non si è, accettandosi un giorno dopo l’altro.

Questo articolo é apparso su Confidenze N29 Del 27 Luglio 2020

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